La nuova dimensione dell’Arte che ha viaggiato nei padiglioni di Artverona era un soliloquio di verità disarmanti che ci rincorreva denunciando il malessere di un Arte crocifissa in installazioni inconcludenti e privi di senso estetico
di Antonella Iozzo
Verona – Si è appena conclusa la 9° edizione di Artverona. Cinque giorni di Arte o meglio di art effect con i soliti premi, i soliti eventi, le solite inaugurazioni, i soliti riti che si perpetuano di anno in anno rimescolando le carte e sperando che salti fuori il jolly e ci riconduca, se non altro, all’ordine armonico delle idee. Ma ormai, dobbiamo ammetterlo è di tendenza l’ordine del caos, quello che “ordinatamente” inverte e assembla i canoni noti e acquisiti dell’Arte e della Bellezza, in nome e in cerca della nuova fusione a freddo della creatività, un gelo che implode nella dememza pseudo – artistica.
Inutile descrivere o scrivere sui vinti e sui vincitori, sul crescente pubblico, sui commenti entusiastici, sulla soddisfazione degli organizzatori confezionando così un comunicato stampa molto simile all’originale e, fra l’altro, facilmente reperibile sul web. Trovo sia più giornalistico e veritiero lasciarsi trasportare dalle sensazioni vissute il giorno della visita, soprattutto quando queste ci restituiscono una visione priva di qualsiasi condizionamento: vuoto, noia, ripetizione seriale, solide conferme da parte delle gallerie storiche Mazzoleni in testa. Sarà anche il solito novecento storicizzato, ma la qualità, la serietà, la vera Arte non ha tempo, è una costante che rilascia Bellezza, quella che tanti artisti e operatori del settore invocano ma non sanno riconoscere o non conoscono affatto o probabilmente pensano che nasca sotto un buon contratto, un grido d’artista sul quale speculare, ultima trovata da prima pagina, poi che sia quella della cronaca locale, dell’amico editore o degli annunci gratuiti poco importa.
La nuova dimensione dell’Arte che ha viaggiato nei padiglioni di Artverona era un soliloquio di verità disarmanti che ci rincorreva denunciando il malessere di un Arte crocifissa in installazioni inconcludenti e privi di senso estetico, ma siamo sicuri dettati dal più alto e puro concetto intellettuale, magari quello che improvvisamente guizza negli occhi dopo un happy hour tirato per le lunghe o dopo che il fondo di qualche bicchiere rivela il futuro. E ancora andando avanti troviamo poi quella martoriata su tele che sentenziavano proclami d’incerta identità: sono ciò che rappresento, ho rappresento ciò che vorrei essere? In entrambi i casi una, anzi più sedute da uno psicanalista sarebbero alquanto utili. Le evocazioni del bello, del reale, del ricordo, del vissuto, dell’interiorizzato per intenderci, non sempre divengono opere d’arte, soprattutto se la mente è stracolma di ego, di teorie salvifiche e di elucubrazioni privi di senso, questi al massimo migrano in brandelli celebrali più utili all’ordine medico per studiare i sintomi dei cervelli post-trauma.
Ma su tutti e tutto regnavano i galleristi, broker travestiti da padri missionari nel regno dell’Arte che con molta diplomazia recitavano il Credo in ogni santo gesto che l’artista ha tracciato come testimonianza di fede verso il successo economico prima, di critica dopo, di pubblico per concludere. Ma se vogliamo veramente divenire saggi ed esperti del nuova art effect ci vengono incontro i vari talk e workshop, tenuti da artisti, galleristi, o esperti del caso con un look che riflette appieno il binomio realtà e immaginazione, dove la prima è data dal fondo schiena scoperto ad ogni movimento grazie ad un abbigliamento che rivela i tratti poco aulici di chi dovrebbe comunicare il valore della Bellezza la seconda è data dalla fuga di pensiero dopo l’empasse con la prima.
Unica consolazione aver trovato in fiera lo stand dell’AMO Arena Museo Opera, un vero museo che parla il linguaggio dell’arte musicale e che ci proponiamo di vistare quanto prima.
di Antonella Iozzo ©Riproduzione riservata
(14/10/2013)
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