Con l’arte Povera si diventa ricchi e potenti
In autunno il movimento inventato dal critico Celant
occuperà i grandi musei con una mostra “mostruosa”. Ecco la mappa degli “iscritti al club”
Sono affari di famiglia, quelli che governano da poco meno di mezzo secolo i destini dell’arte italiana. Un gruppo ristretto ma molto affiatato di genitori e figli, mogli e mariti, fidanzati e amanti tiene le fila contando sulla complicità di buona parte di musei e fondazioni: una rete di potere che si è allargata anche oltre confine, non solo nei luoghi espositivi ma soprattutto nelle aste. Questa famiglia si chiama Arte Povera, anche se è ricchissima, è nata nel 1967 con una serie di piccole mostre e un critico militante, Germano Celant; nel 2011, quarantaquattro anni dopo, sta per andare in scena l’ennesima autocelebrazione del movimento, con l’occupazione armata di ben sei musei sul territorio nazionale (l’evento «2011 Arte Povera» sarà in autunno a Torino, Milano, Bologna, Napoli e in due istituzioni romane, Maxxi e Gnam).
Eppure quest’Arte Povera non piace, il pubblico non frequenta gli spazi che la ospitano, ormai tediato da proposte sempre uguali a se stesse: gli specchi di Pistoletto, i sassi di Anselmo, le stelle di Zorio, le cortecce di Penone ecc… Pura accademia travestita da concettuale per la smania dei pochi collezionisti che si possono permettere spese folli per oggetti di antiquariato moderno.
È una storia che parte da lontano. All’inizio degli anni ’70 la giovane studiosa d’arte contemporanea Ida Gianelli entra nell’orbita di Germano Celant. Lui le offre diverse occasioni di lavoro, tenendola sotto la propria ala protettiva. Puntando sulla precisione archivistica di Ida, le affida la cura di diversi cataloghi e il programma di una galleria d’avanguardia a Genova. Altro incontro importante è quello con Pontus Hulten che le frutta un paio di collaborazioni con Palazzo Grassi a Venezia, al tempo emanazione Fiat.
Quando nel 1990 Ida Gianelli viene nominata direttrice al Castello di Rivoli (stiamo parlando di anni in cui la residenza sabauda era di gran lunga il più importante museo italiano d’arte contemporanea) non sorprende: anche se lei e Celant si sono allontanati, è fondamentale mettere una persona di fiducia, una longa manus dell’Arte Povera. La collezione viene incrementata, valore e prezzi aumentano. A Rivoli la Gianelli è rimasta ben diciotto anni, portando il museo prima allo splendore (le dobbiamo mostre come Post Human, Keith Haring, Warhol-Basquiat, Helmut Newton) e poi alla lenta decadenza, complici una gestione economicamente discutibile, come la decisione di dare dei soldi allo chef Davide Scabin per trasferire il suo ristorante Combal dentro il Castello.
Ma certo, rispetto al nulla che c’è oggi, tocca rimpiangere la lunga monarchia di Ida.
Quando in autunno verrà installata l’ennesima mostra dell’Arte Povera, a Rivoli saranno due anni della strana coppia Andrea Bellini-Beatrice Merz. Il primo non ha un gran curriculum ma neppure intrighi familiari, lei invece è figlia di Mario e Marisa Merz, due artisti dell’Arte Povera (il padre è scomparso nel 2003) ed è stata moglie di Gilberto Zorio, il più politico ed estremista del gruppo, nonostante il patrimonio personale davvero invidiabile. Editrice d’arte, già presidente della fondazione che porta il nome di famiglia e ne valorizza il patrimonio personale con l’aiuto del contributo pubblico, la cinquantenne erede era stata inclusa nel board che doveva valutare curricula e progetti dell’aspirante nuovo direttore. Dopo la nomina, troppo debole e tutta politica, di Bellini, ci voleva un coequipeur, e di colpo la Merz si è trovata a condividere la poltrona più alta del Castello. Perché? I ben informati la danno ben accetta a un gallerista torinese che tratta Arte Povera, a sua volta in rapporti d’amicizia con il presidente Giovanni Minoli. Pare tutto si sia deciso al termine di una cena in una delle più belle piazze sabaude.
L’estensione della famiglia nel mondo dell’arte si chiama Fondazione. Ovvero: ho un bel nome, metto su un progetto culturale e me lo pagate voi. All’opposto di ciò che accade in America, dove i ricchi finanziano l’arte, in Italia i milionari chiedono soldi pubblici per foraggiare le loro imprese cui frega a pochi, ma se qualcuno fa osservare che non ce n’è più si prende insulti o una mutanda in faccia. Soprattutto all’Arte Povera piace questo giochetto delle fondazioni. Di Merz abbiamo già detto, l’altro monumento all’inutilità sta a Biella e porta il nome di Michelangelo Pistoletto, che nell’ampia filanda espone le sue opere come in uno show-room sempre a disposizione dei collezionisti e ogni tanto mette in piedi qualche fumoso progetto per giustificare la richiesta di soldi alla comunità.
di Luca Beatrice
(17.08.2011)
www.ilgiornale.it
Articolo correlato: Intervista a Luca Beatrice
Bluarte è su https://www.facebook.com/bluarte.rivista e su Twitter: @Bluarte1