L'<<obiettivo>> di Richter moltiplicare l’arte per renderla democratica.
Sulla falsariga della massima di Picasso – «Io non cerco, trovo» – Gerhard Richter si imbatte in immagini particolarmente attraenti rintracciandole
di Luca Beatrice
Torino -Considerata a lungo un succedaneo della pittura, l’arte moltiplicata si sta rivelando un territorio di scoperta per molti versi sorprendenti, nonché un aspetto del collezionismo gustoso e intrigante. Basta uscire dalla definizione semplicistica di grafica per scoprire nel multiplo un territorio di sperimentazioni tecnico-stilistiche e l’ambizione di diffondere a più persone un’immagine decretandone così la fortuna. D’altra parte se il ‘900 è il secolo dell’arte tecnicamente riproducibile, forse il dogma dell’opera unica non è poi così assoluto.
La sensazione di trovarci in presenza di un almanacco illustrato a ripercorrere la carriera del più importante pittore tedesco vivente va in scena alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino: la mostra personale di Gerhard Richter (fino al 21 aprile) incentrata sulla collezione Olbricht, ovvero la raccolta completa di tutte le edizioni (pare gliene manchi solo una) che il maestro ha prodotto dal 1965 al 2012. Un corpus impressionante, che rivela l’ansia di Richter nell’usare la pittura come palestra di tensioni e contraddizioni, verificando a tal modo tutta la contemporaneità del colore oltre i consolidati schemi di astratto/figurativo, fotorealista/segnico informale.
Thomas Olbricht ha messo insieme ben 150 opere, tra edizioni fotografiche di quadri famosi, offset, dipinti concepiti già per farne un’edizione. Nel tempo Richter ricorre a una gran varietà mediale: stampe, fotografie, oggetti, libri, collage, poster attraversando tutti i generi della pittura e i soggetti a lui cari, dal ritratto al dipinto di storia in b/n, il nudo e il paesaggio, fino a giungere alla sublimazione astratta di piccole tracce di colore che si ripetono all’infinito.
Peraltro il progetto di una democratizzazione dell’arte era già vivo in Richter fin dagli inizi. Nato nel 1932 a Dresda, nell’ex DDR, all’inizio degli anni ’60 si trasferisce a Ovest e entra in contatto con Joseph Beuys che sarà da una parte punto di riferimento concettuale, dall’altra eterno rivale in quanto portatore di una visione troppo estrema e ideologica. L’idea del multiplo dunque lo solletica fin da giovane e lo spinge a usare fotografie come base per i dipinti, una prassi per Andy Warhol e per gli artisti pop americani che trova meno estimatori in Europa. A Richter piacerebbe dunque che i suoi lavori fossero accessibili per molti se non tutti e considera la moltiplicazione come un vero progetto culturale.
Sulla falsariga della massima di Picasso – «Io non cerco, trovo» – Gerhard Richter si imbatte in immagini particolarmente attraenti rintracciandole sui giornali quotidiani, sugli atlanti di storia, sulle riviste erotiche e sui depliant di viaggio. Non ha l’ambizione di inventare niente di nuovo, fatto tutto sommato atipico per un pittore, ma è proprio questo atteggiamento a giustificarne la contemporaneità, e gli interessa soprattutto la realtà comunicata attraverso i media, che poi sono l’unica fonte attendibile della nostra conoscenza. Uno dei pezzi più famosi è Elisabeth II (1966), il ritratto della regina d’Inghilterra preso da una foto pubblicata a stampa, che Richter rielabora con un effetto fuori fuoco, come fosse un’inquadratura venuta male, esatto opposto dell’icona warholiana. Il procedimento si chiama «moiré», ovvero l’emergere del retino tipografico considerato di norma un incidente tecnico che dunque sposta l’attenzione dall’immagine al linguaggio.
Altri capolavori moltiplicati sono Betty (1991), inquadratura della figlia di spalle che indossa un abito rosso molto vivace, dove Richter raggiunge l’intensità fotorealistica dei quadri a olio grazie alla precisione dell’offset e all’utilizzo di vernici trasparenti lucide. Il ciclo Fuji (1996) nasce invece da alcune pitture astratte ri-fotografate e trasformate in multiplo, mentre 1260 Farben (1974) rappresenta l’ossessione archivistica di voler classificare ripetendoli all’infinito i pantoni cromatici: siamo circa vent’anni prima dei Dots Painting di Damien Hirst sulla strada che porta, come direbbero i semiologi, verso una pittura denotativa che esclude il dominio del significato.
Altro ambito di sperimentazione sono i Neuen Objekt (1969) basati su illusioni ottiche che di fatto truccano il realismo fotografico. Gli amanti del rock riconosceranno infine Kerze II (1989) l’immagine della candela accesa su fondo verde, più volte ripresa da Richter, che ha fatto da sfondo per la copertina di uno dei dischi più famosi dei Sonic Youth, Daydream Nation.
Dopo l’omaggio antologico della Tate Modern a Londra, del Centre Pompidou a Parigi e della Neue Galerie a Berlino, è Torino a proporre un aspetto forse meno noto, ma non per questo meno importante, dell’ultimo gigante della pittura mondiale.
di Luca Beatrice
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(14.03.2013)
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