Picasso come un arlecchino visionario e leggero
ridisegna i confini impossibili del desiderio artistico
Roma – Al Complesso del Vittoriano di Roma, dall’11 ottobre all’8 febbraio 2009, una grande mostra: “Picasso 1917-1937. L’Arlecchino dell’arte”. La poliedricità del suo stile è una costante nella discontinuità melodica della forma che si scompone e si ricompone in oltre 180 opere, una sinfonia imbevuta di cubismo, surrealismo e classicismo
Picasso come un arlecchino visionario e leggero ridisegna i confini impossibili del desiderio artistico. Sotto la maschera la stessa energia creativa, sopra la tela le mille variazioni su tema danzano il loro rito sabbatico intorno all’Arte ed l’Arlecchino diviene metafora di una diversità che si nutre della stessa febbricitante inventiva, della stessa tensione, dello stesso fermento che sempre e comunque muta e rivoluzione lo stesso Picasso.
Vivace, classico, malinconico, Arlecchino come Picasso. Innovativo, musicale, solitario, Picasso come Arlecchino. All’apice della sua produttività interpreta qualsiasi sentimento, qualsiasi cosa, adottando contemporaneamente gli stilemi del cubismo, del neoclassicismo, del surrealismo e dell’espressionismo. Il più grande artista del ventesimo secolo in un’esposizione che, concentrandosi sulla produzione dei venti anni tra le due guerre mondiali, mette in risalto la libertà con la quale la sua vena creativa fluisce da un linguaggio all’altro.
Impossibile posizionare all’interno di una rigido riquadro il suo vertiginoso talento, esploso precocemente a 14 anni quando venne ammesso all’ Accademia di Belle Arti di Barcellona eseguendo in un solo giorno i due elaborati richiesti, per i quali era concesso un mese di tempo. Impossibile scorrere cronologicamente il percorso artistico di Picasso attraverso un allestimento che cercherebbe di ricostruire la sua vastissima produzione, più di 30.000 opere.
La soluzione adottata è una promenade tra oli, disegni e sculture che si lasciano leggere, ammirare, assorbire con la consapevolezza di appartenere alla storia dell’arte e di averne tessute le file superando i limiti di ciò che per molti è contrasto, antitesi.
All’alba della sua crescita artistica le frequentazioni al locale di Barcellona “Quattro gatti” (Els 4 Gats), dove sostavano i maestri che nella capitale francese, avevano respirato le suggestioni del simbolismo, il fascino del post impressionismo e dall’Art nouveau, poi Segnata, e la malinconia del “periodo blu” di Parigi, iniziato con i ritratti dell’amico Casagemas morto suicida, sparandosi in un caffè parigino nel febbraio del 1901, perché perdutamente innamorato e non corrisposto dalla modella Germane. Il tema della morte, della solitudine, della mancanza d’amore, della povertà metaforica, continuano ad avanzare fino al “periodo rosa” ora, la malinconica si assopisce nella dolcezza della bellezza classica.
Nulla è eterno tutto è mutevole come il segno di Picasso, la sua esplosione non può non modificare, alterare, sconvolgere, è il 1907, è l’anno del cubismo. Rivoluzione, battaglia a colpo di pennello, attriti, invasioni di campo, lo spazio si scompone e la mente ne abita le prospettive fino al 1917, quando inizia una coesistenza di linguaggi, repertori abilmente assemblati in una sequenza d’immagini, di visioni, di segni, di gesti interiori, dalle quali Picasso ogni volta preleva una determinata maniera pittorica che non esclude gli stili precedenti e non è preclusa a quelli futuri, ecco perché seguire una direttiva ben precisa non approderebbe lontano. E’ questo il mistero racchiuso nei quattro Arlecchini: l’ “Arlecchino” classico, proveniente dal Museo Picasso di Barcellona, che si apre ad un dialogo con la tradizione naturalista e sembra in apparente contrasto con l’ ”Arlecchino suonatore” dalla National Gallery di Washington, in versione cubista; il corpo è scomposto in pezzi, le forme appaiono spigolose mentre una tensione nervosa governa la composizione. Ed ancora, l’ “Arlecchino” dal Metropolitan di New York perso tra le superfici colorate staccate dallo sfondo; svolazzante astrazione in un motivo di rombi colorati che ci porta davanti alla “Testa di Arlecchino” da collezione privata, sogno, sospensione, ambiente surrealista, la realtà è dietro la maschera o forse la maschera è nella forma dubbia, enigmatica, inafferrabile della realtà.
Nei quattro Arlecchini l’anima di Picasso, la sua estrosità la sua musicalità, un quartetto di voci che si diramano in direzioni diverse per amalgamarsi in una verità che prescinde qualsiasi forma, è Arte come testimonianza di un nuovo corso che inizia proprio da Roma, dove arriva il 17 febbraio del 1917 con Jean Cocteau, , per lavorare al primo balletto cubista della storia, Parade. Picasso aveva l’incarico di progettare le scenografie e i costumi del balletto, Jean Cocteau di redigerne il libretto. Furono entrambi chiamati da Sergej de Diaghilev l’impresario della compagnia, di cui facevano parte il coreografo-ballerino russo Léonice Massine, ritratto in “Arlecchino” classico di Barcellona, e la ballerina Olga Kokhlova.
Dall’Hotel de Russie, dove risiedevano, allo studio di Via Margutta 53B, preso in affitto dal Marchese Giuseppe Patrizi il 23 febbraio. In questo studio Picasso dipinse un suo grande capolavoro “l’Italienne”, conservata oggi a Zurigo nella collezione E. G. Bührle e che apre il percorso della mostra. La storia s’intreccia con la cultura popolare, i sapori mediterranei con i souvenir da cartolina, tutto in una composizione cubista che ritrae una giovane donna, sullo sfondo della cupola di San Pietro. L’opera con estrema leggerezza innesta l’antichità greco – romana a forme ambigue, uno scenario bizzarre ma perfettamente armonioso. Percorrendo la mostra sostiamo davanti alle sue donne, Olga poi lasciata per la giovanissima Marie-Therese, e la fotografa Dora Maar, dal blu del ritratto alle nature morte e alle bagnati che sembrano stemperare le tensioni e smussare gli angoli. Ma la nostra attenzione s’irritisce dinanzi alle opere che richiamano il linguaggio inquietante di Guernica, capolavoro assoluto realizzato in memoria del bombardamento sulla cittadina basca di Guernica nel 1937. La paura assume il volto di donne urlanti ed in lacrime, sono le struggenti tele della Fondazione Beyeler di Basilea e del Museo Reina Sofia di Madrid, poi la violenza, l’atroce dolore non più rimarginato, il sangue delle corride sui dipinti del Philadelphia Museum e dell’University of Michigan Museum of Art.Verso la fine del percorso “La Suite Voillard”, cento incisioni eterogenee per stili e contenuti commissionati da Ambrosie Voillard. Esposte per la prima volta tutte insieme senza soluzione di continuità, quasi per sottolineare l’intensa e la diversissima attività di Picasso che non ebbe mai aiutanti di bottega, fu l’unico grande maestro che realizzò in prima persona tutti si suoi capolavori.
di Antonella Iozzo © Produzione riservata
7/11/2008
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