“Renoir, i due volti del pittore che voleva piacere troppo”
Basilea – – Renoir (Pierre-Auguste, per distinguerlo dal magnifico figlio regista, Jean, che ha narrato del resto di papà) risulta alla fin fine uno stranissimo «animale» d’artista. Per lo meno nella valutazione dei gusti. Che ci può contaminare di piacere, ed anche molto, per le prime opere, sino ad una certa datazione (che diremo). Poi, anche per molti dei suoi ammiratori, quasi il disastro: la precipitosa «caduta degli dei» del gusto, in picchiata, affondando in un soufflé di rosa confetti e di pasticci burrosi, tra fisionomie piacione e paffute (la somiglianza puntualmente mancata: basterebbero i più tardi ritratti di Mallarmé e Wagner). E dire che di ammiratori ne possedeva e d’incredibili, in perenne pellegrinaggio, spesso anche stilistico. Da Signac e Bonnard (prevedibili) ma poi pure il malmostoso Cézanne («Detesto tutti i pittori, tranne Renoir») e perfino i dioscuri della Modernità, Matisse e Picasso (che lo colleziona voluttuosamente) insieme all’arbitro Apollinaire («il più grande pittore vivente», nel 1914!). Oltre Zola, Mallarmè e Degas, da noi, insospettabili, perfino Longhi («molto meglio di Picasso)» e addirittura Morandi, stregato.
Non è che invecchi male, intendiamoci (non tutti possono essere Tiziano, vedi per esempio Chagall). No, Renoir sceglie una strada errata ed errabonda, che oggi, in gran parte, non piace più («per me una tela deve essere un qualcosa di amabile, gioioso e carino»: buonismo espressivomaterico e cartolinesco, che ci trasmette insofferenza). Come a dire: devia, dirazza per il viottolo della facilità, un po’ mercantile, del lucente benessere cromatico, del pastoso «pressapochismo pittorico». Come denunciava la moglie del dottor Blance, che non lo voleva nemmeno a tavola, per quel suo nervosismo congenito, che: «guasta pure la pittura. Un matto vero». Che abbia ragione il paradossale Gauguin («Renoir non ha mai saputo disegnare, ma disegna così bene»)? No. Da giovane sapeva disegnare, eccome, e bene ha fatto Basilea, in questo crogiuolo un po’ folle ed ignavo di contemporaneismo & basta ad avere l’idea di porre, anche visivamente, questo tangibile problema. Limitandosi al periodo 1860-’70: «gli anni giovani». E dunque toccando il rebus della Modernità: «nervo scoperto», in perenne dialettica, baudleriana, con «l’eterno primitivo», come scrive il curatore Zimmerman, nel bel saggio Dalla Bohème all’Arcadia (si pensi alle posteriori Bagnanti di Filadelfia, accanto al Duchamp di Etant donné ) che più commercialmente si trasforma nel titolo della mostra: «Dalla bohème alla Borghesia». Titolo furbetto? No, probabilmente è proprio così. Rifiutato dai Salons (lo spettro dell’epoca, ma più degli altri cosiddetti Impressionisti, Renoir ci tiene a piacere) appena vende qualche suo quadro a Durand Ruel ed entra nel sistema, cioè nel prestigioso salotto di Madame Charpentier si guasta e s’infarina.
Nella mostra lo radiografi anno dopo anno, anche se già la Ninfa alla fonte, del ’68, che pastorizza l’ammirazione venerante a Corot, riportandolo verso le cicce fragolose di Fragonard, annuncia l’imminente via del tralignare (ovvio, un’opinione personale, ma condivisa). Tralignamento che si può datare puntualmente nel varco verso i non-felici Anni 70 (il conflitto con la Germania, l’armistizio e la Comune, la morte in guerra dell’amico Bazille, drammi coniugali, figli non riconosciuti, e l’accusa terribile d’aver sedotto la figlia quindicenne del miglior amico pittore). All’inizio, Renoir è un pittore dai netti contorni, quasi glassati, anche lui ha il suo periodo «à la Ingres», come poi Picasso, E proviene, non a caso, dall’atelier dello svizzero Gleize, insieme a Bazille, Monet e Sisley (e Gleize, il protestante, significa pure romanticismo alla George Sand, Lehman, Liszt, e tutta una cultura nordica). Ma come dimenticare che è nato a Limoges, ed esordisce come pittore su ceramica: si veda per esempio quel meraviglioso ritratto della morbosità puberale ( Le garçon au chat dove il pelo del felino si stacca in un rilievo spiumato, ma la copertina è tramata di fiorami sfusi, come di sfilacciata porcellana.
Quando sopravviene il disgelo della materia, ecco che prende il sopravvento quel suo sfare latteo e glicerinato, che da ghiaccio (color bottiglia, di pasta vitrea, anticipando il «fauve» Marquet) si fa formaggino ruscellante, sfuso, boldinesco e mondano. E segna la fine comunque di uno dei due Renoir. Forse è la morte dell’essenziale amico Bazille (si dipingevano a vicenda, a specchio) a «sbarellarlo» per sempre e sottrargli la bussola delle forme. Ma è se a tradirlo fosse invece un imperativo mal digerito del Moderno a tutti i costi, che lo rende più appetibile, commerciale, languido e seriale. In una parola, a rischio-Kitsch?
Renoir. Tra Bohème E Borghesia
Basilea. Kunshaus – Fino Al 12 Agosto
Immagine: «Le garçon au chat» è una delle opere giovanili di Auguste Renoir dalle quali già emerge la sua straordinaria tecnica.
di Marcello Vallora
(18.06.2012)
www.lastampa.it
Bluarte è su https://www.facebook.com/bluarte.rivista e su Twitter: @Bluarte1