Vocalità spianate
rendono scultorea l’essenza dell’opera
Trieste – La vita staziona in un brivido al Teatro Verdi di Trieste con l’opera in un atto di Alessandro Solbiati “Il Carro e i Canti” da “Il festino in tempo di peste” di A. Puskin. Una prima assoluta commissionata a Solbiati dalla Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, tra gli interpreti Alda Caiello e Sonia Visentin, orchestra del teatro Lirico di Trieste direttore, Paolo Longo, regia Ignacio Garcia.
Solbiati “legge” Puskin, una lettura dentro il corpo della parola per cogliere il sintomo spettrale della finitezza che l’esistenza porta in sé:la Morte. Ilrapporto conflittuale tra l’uomo e questa presenza silenziosa e invisibile genera voragini, sbalza l’intelletto nella vacuità e crea società contemporanee anoressiche nella sostanza e nello spirito.
Infuria la peste e i cinque personaggi avvolti da una glaciale quanto leggera e apparente indifferenza continuano il loro festino. Reazioni diverse, ciniche, sarcastiche, teatrali, macabre si alternano come i loro continui brindisi alla vita che ancora scorre, una vita infestata dall’odore acre della morte, una vita crudele che gioca con il destino sospeso fra ricordi, memorie e presagi. In questa atmosfera di nefasta follia, il brindisi all’amico morto pochi giorni prima lacera il tessuto sentimentale, inizialmente con il canto nostalgico e dolce di Mary/Caiello, poi con la fragilità latente di Luisa/Visentin, dolore consumato, paura lancinante, strazio vissuto, urlato, inghiottito.
Le loro vocalità spianate rendono scultorea l’essenza dell’opera, le voci svettano verso l’alto, quasi urlano la loro sofferenza e poi la sedimentano in frammenti di antilirica bellezza atta a scalfire il cuore. Ogni interprete sul palcoscenico arde in un dolore dilatato o contratto nella ”divaricazione” della voce, un amplesso bruciante che rinasce nella dimensione ipnotica e onirica dell’intera scenografia, curata in ogni minimo dettaglio.
L’intera opera è un delirio ragionato, un’introspezione tagliente che squarcia la tensione e avanza senza pietà verso di noi, irretiti nelle poltrone. E come se con Solbiati l’esplorazione dell’intimo fosse un rumore – soffio, una sensazione che esce senza abbandonare mai la propria nota. Ogni suono, o meglio ogni singolo segno dello spartito sfibra i tendini in una idiosincrasia con l’inviolabile trattenuto sulla soglia dell’umana percezione. Contrasti, spigolature, alterazioni, rimbalzi, quasi aggregazioni sonore diverse non raccontano, non concludono, ma si slanciano e ricadono in un groviglio di invisibili tensioni sviluppando l’inquietudine morente.
Il corpo inerte subisce l’erosione sensitiva, la mente vacilla, il tempo si arresta sull’abisso della propria mortalità quando sulla scena irrompe il carro dei morti pieno di cadaveri. Lentamente attraversa il palcoscenico e ogni fibra pulsante sottopelle, plumbee emozioni, si addensano come nebbie, una follia devastante s’impossessa delle membra assuefatte, l’incubo è vivo corroborato dalla paura, l’alcol ne annaffia l’evanescenza che implode in un Inno alla Peste portato avanti da Walsingham/Leoni, il Presidente. Profondo, drammatico, tetro, crudele atto di verità protesa nel limbo dell’incoscienza.
Un senso d’impotenza sospira nel corpo e la vita si ritrae dentro i confini dell’angoscia, uno spazio fisico, reale e visionario che gravita intorno ai personaggi, uno spazio retrospettivo che alimenta la spazialità disarmante di quel ricordo onirico che inaspettatamente si è stagliato nei nostri occhi. Visione, suggestione, preludio ad una notte alla quale non seguirà l’alba? Solo la vita che continua nella razionale follia di un festino, un brindisi ancora e la neve spegnerà le ceneri ardenti del lungo sonno. Interpretazione orchestrale esemplare per la trasparenza e per lo spessore e la tensione avvolgente che il maestro Longo ha saputo imprimere. Un’opera siderale che sembra provenire dall’altro capo dell’universo e che la precisione del gesto del direttore ha saputo incidere con dinamica temporale.
Migrazioni di idee sul territorio del corpo, intuizioni, emozioni, contaminazioni, tutto in una serata al Teatro Lirico di Trieste. La seconda parte è dedicata, infatti alla danza con lo spettacolo BB & BB Berio, Bach & Break Beats, conla Compagnia di ballo del Teatro Musicale Fiorentino, direttore Vladimir Derevianko, coreografia Massimo Moricone, soprano Alda Caiello, pianoforte Francesco Novelli, orchestra del teatro Lirico di Trieste diretta sempre dal maestro Longo. Dialoghi in forma di danza per un balletto che porta sulla scena la “danza di scuola” e la break dance per possibili incontri fra stili diversi. S’inizia con le “Folk Songs” di Berio interpretate da Caiello. Voce impalpabile, ritmica, cerebrale. Ballerini sensuali, misteriosi, ieratici, un codice linguistico – corporeo si snoda nella suggestione visiva del movimento, è estasi sfumata in mimesi di pensieri colti sul nascere. Le musiche di Bach, – Preludio n. 6, 2 da “Il clavicembalo ben temperato” e la “Ciaccona BWV 1004 -, non sono mai state così corporee, tattili, impregnate di sudore emotivo, come in questa interpretazione danzata. Forme in movimento si aprono alla musica di Noto e trasformano in percezione, in assimilazione del corpo un immenso materiale che tra cadute, riprese, salti, slanci ricrea l’invisibilità della musica e l’indivisibilità del danzatore e dei suoi gesti. Una poesia sensitiva magnificamente eseguita dal corpo di ballo scivola dai preludi n. 2, 4, 21, 15, 6, 13 di Chopin alla break dance, come per dire il mondo attraverso i sensi del danzatore.
Un incrociarsi di tensioni fra l’esterno e l’interno trasformate continuamente in gestualità ritmica. Azioni suscitate dalla relazione con ciò che ci circonda, assorbite e rilanciate da un parossismo che scuotendo i nervi riproduce i sintomi vitali della realtà. Un ritratto urbano disturbato, una contemporaneità distorta da situazioni ai margini della normalità e qui riprodotta dall’energia della danza come action painting dell’emozioni, e lo spettacolo continua nel movimento riflessivo – istintivo della quotidianità, basta saperlo afferrare.
di Antonella Iozzo
© Produzione riservata
27/04/2009
Articolo correalto: Intervista ad Alessandro Solbiati – Intervista ad Alda Caiello
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