3/11/2009
Roma – Auditorium Parco della Musica, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Antonio Pappano, pianoforte Leif Ove Andsnes, protagonista l’assoluto della musica in una serata, quella del 31 ottobre, d’intense emozioni.
Apre il concerto il poema sinfonico op.62 di Anatolij Ljadov, “Il lago incantato”. Pagina colma di diafana poesia sussurrata da un’orchestra luminosa, morbida, compatta, flessibile. Riflessi di lago adagiati nei suoni liquidi dell’arpa, quasi nuvole in trasparenza tra i bagliori dei legni e dei corni, quasi note diamantine che dalla celesta fluttuano verso l’intero corpo orchestrale sospeso nella rarefazione della sensibilità timbrica. In questa un’atmosfera impalpabile, soave, invisibile, sembra esistere un solo gesto, quello di Pappano che librato nell’aria ricade poi, sul prima e sul dopo di un tempo mutato dall’orchestra in soffio di perlacea intimità musicale.
Dopo il grande successo ottenuto nelle maggiori sale di concerto internazionali, per il tour dei 100 anni dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, sul Palcoscenico dell’Auditorium di nuovo insieme Pappano e il pianista norvegese Andsnes per il Concerto n.4 di Sergej Rachmaninoff, lunghissimo e travagliato lavoro portato a termine nel 1926, diciassette anni dopo il Terzo. Revisioni, correzioni, tagli, ad opera dello stesso Rachmaninoff hanno scandagliato, sezionato questa creazione, la cui prima avviene a Filadelfia il 18 marzo del 1927, con scarsi consensi, che si ripeteranno anche nell’esecuzioni successive, sia da parte della critica che dal pubblico,
Completamente diverso dai lavori precedenti risente dell’inquietudine, degli stimoli e degli impulsi del Novecento. Non di facile ascolto richiede scavo e proiezione nell’architettura della composizione, una complessità che va ancora indagata e che Andsnes sfiora grazie ad un’interpretazione pervasa da una continua ricerca della tensione sia melodica che sonora e timbrica, dalla quale scaturisce un’agitazione profonda capace di animarsi dentro le linee della tastiera e d’incresparsi nel ritmo nervoso quasi segmentato dell’orchestra.
L’interpretazione lucida e razionale di Andsnes affiora fin dalle prime battute che prepotentemente c’immergono nella spigolosità dello spartito, materia sonora plasmata dall’orchestra nella distensione del Largo. Poi incede con eleganza e tecnica infallibile la vitalità ritmica del terzo movimento. Sull’intera esecuzione il tocco di Pappano energico e cordiale, movimenti che sottolineano e aprono il suono rilasciato in tutte le sue sfumature da una vibrante orchestra.
Seconda parte completamente dedicata a Petr Il’Ic Cajkovskij conla Sinfonian.4. Lirico, struggente spasmo emotivo tra le onde impetuose di un’incandescenza musicale capace di rivelare le tenebre dell’angoscia ed il tormento che lacerano Cajkovskij durante la stesura della composizione. Ogni singola nota sembra essere la voce dell’interiorità, stati d’animo come lacerti di situazioni tortuose, gravide di malinconia, ombre minacciose che oscurano ogni speranza di felicità.
Nel primo movimento la disperazione ardente affidata agli archi e poi ripresa dall’intera orchestra è portata all’estremo, evocazioni stridenti e impetuosi al limite della violenza si susseguono nella precisione chirurgica di un’esecuzione che scuote il suono. Poi, la tensione si placa, è una danza nella liquescenza dei flauti, morbidi andamenti che sembrano voler dar seguito ai fulminei volteggiamenti disegnati da Pappano nell’aria, con un carisma cadenzato e misurato. E’ solo un’illusione spezzata in perlacei e taglienti micro – cellule musicali memori dell’amara realtà e del dolore profondo che strepita nuovamente dal ritorno della fanfara iniziale, tesa verso un ritmo preciso e tagliente dagli ottoni.
L’immagine sonora si ritrae nella quiete latente del secondo movimento, dolci ricordi, sogni dal sapore agrodolce come cadenze sulle braci ardenti di uno sconforto malinconico, tutto portato in avanti dalla melodia dell’oboe, sullo sfondo del pizzicato degli archi. Lungo, lunghissimo attimo grave, poi teneramente sospeso, poi impregnato di solida sostanza musicale disciolta nella desolazione quasi impersonata dall’orchestra.
Il finale è travolgente, impetuoso, ardente, magma rovente sulle corde degli archi, urlo primordiale tra le voci degli ottoni, ritmo forsennato tra le percussioni, agitazione in crescendo per i legni. Una terrificante, spietata forza primordiale s’impossessa della musica, di Cajkovskij stesso, che si lascia trasportare dal fato in un parossismo inevitabile, quanto lo è vivere la gioia e la tristezza del mondo. E’ un balenio di speranza, di ostentata coscienza tra le crepe dell’umana disperazione elevata a commovente, patetica, toccante bellezza nel vorticoso flusso sonoro teso dall’orchestra e da Pappano in pulsazione tumultuosa, in veemente espressività in vertigine ritmica.
di Antonella Iozzo © Produzione riservata
Bluarte è su https://www.facebook.com/bluarte.rivista e su Twitter: @Bluarte1