Il fragore rivoluzionario de “La Muta di Portici”.
La sublime cavatina da Grand-Opèra: suggestione e rapimento nell’aria del sonno che Masaniello canta a Fenella.
di Antonio V. Gelormini
Bari – E’ probabile che la spinta alla composizione di “La muette de Portici” sia la risultante del perdurante coinvolgimento emotivo, che attraversò l’Europa intera, agli inizi dell’800. L’attaccamento al mito di Masaniello, oltre un secolo e mezzo dopo la sua morte, continuava ad animare i rivoluzionari d’ogni dove, e provocò quella sorta di damnatio memoriae, a cui Masaniello fu condannato, durante la dura restaurazione borbonica. Quando Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la dispersione delle spoglie, per cercare di neutralizzare la carica irredentista, che la sola evocazione del nome provocava tra gli animi esasperati non solo del popolo partenopeo.
La corte di Napoli era pur sempre la seconda in Europa, dopo quella di Parigi. Per cui era evidente che un fatto di tale portata non rimanesse impigliato nelle reti domestiche della cronaca locale, ma diventasse motivo d’ispirazione diffusa e in particolare in Francia, per Daniel Francois Esprit Auber, prima, e per Eugène Scribe e Germain Delavigne di conseguenza.
Riscatto degli oppressi, coscienza di classe, sentimento morale e dignità della persona diventano la base della ricerca artistica nella quotidianità degli umili, un approccio che si delinea sul palcoscenico dell’opera, ma che esploderà – più tardi – in tutta la sua carica emotiva nella letteratura di Victor Hugo e del suo capolavoro: Les Miserables.
Un grido a lungo soffocato, per dire al mondo intero che siamo tutti uomini e donne sotto il cielo, ma non fatti della stessa pasta. Che c’è molta più etica e morale nei bassifondi di Parigi, come nei vasci di Napoli o di Portici, che nei saloni luccicanti dei palazzi reali, dove ciprie e parrucche continuano a coprire vergogne e umori di nobile fattura.
Il fragore espressivo e l’irrefrenabile dinamicità della muta Fenella sono solo la punta più evidente di un processo scenico rivoluzionario, messo in atto da Auber e dai suoi illustri librettisti. Dalla protagonista senza voce, paladina della vasta platea dei “senza voce”, all’esaltazione della solidarietà femminile, che rende complici e non rivali Elvire e la stessa Fenella.
Dalla sacralità dell’ospitalità al rispetto della disperazione, foss’anche quella del nemico o dell’oppressore (un nemico che aveva perorato la causa di Fenella, quando per rabbia e vendetta avrebbe potuto schiacciarla). Quindi, al valore indiscusso della riconoscenza, baluardi etici e morali intimamente custoditi nella roccaforte plebea della società: da difendere a costo anche dell’estremo sacrificio, per non farsi travolgere dal relativismo di corte imborghesito e dai ciechi sentimenti di vendetta.
Un processo virtuoso che Emma Dante, con la sua regia, rinnova magistralmente sul palcoscenico più consono del Teatro Petruzzelli che, meglio dell’Opera Comique parigino, in questo caso si fa Cattedrale di una celebrazione niente affatto liturgica: rivendicare il diritto alla pietà, per praticare l’esercizio della carità. Ovvero: mettere in evidenza dove albergano, in realtà, “nobiltà d’animo” e “dignità umana”.
Una rivoluzione che esalterà l’azione corale in scena, quella della trama e quella degli interpreti, quasi come contraltare al silenzio forzato di Fenella (da urlo la straordinaria interpretazione di Elena Borgogni), in cui spiccano duetti e giochi di sponda, che fanno da contrappunto alla rete a maglia fine di sonorità e tonalità tipiche dell’elegante compositore francese. Elvire e Fenella, Fenella e Masaniello, Masaniello e Pietro, il Coro del Petruzzelli abilmente diretto dal maestro Franco Sebastiani, il timbro deciso e accattivante di Maria Alejandres (Elvire) e Michael Spyres (Masaniello), nonché l’Orchestra del Petruzzelli e la direzione accorta e trascinante di Alain Guingal.
Su tutti la sublime cavatina da Grand-Opèra in apertura del IV atto: suggestione e rapimento nell’aria del sonno che Masaniello canta a Fenella. La cura amorevole del fratello che si fa madre, per addolcire le sofferenze ed implorare un sogno felice per la terrorizzata Fenella (Ferme tes yeux, la fatigue t’accable/Repose en paix, je vellerai sur toi/Du pauvre seul ami fidéle/Descends à ma voix qui t’appelle/Sommeil, descends du haut des cieux!/De son coeur bannis les alarmes/Qu’un songe heureux sèche les larmes/Qui tombent encore de ses yeux).
Il sacrificio estremo del capo-popolo Masaniello, travolto dalla furia dell’esasperazione che lui stesso aveva animato, e che continuerà a lungo a rinnovarsi, renderà “santo” quell’irrefrenabile silenzio, fissandolo nella quotidianità delle mille edicole che continueranno, ad ogni angolo di strada, vascio o gentile che sia, a garantire conforto a una disperazione diffusa senza tempo e senza fine.
Lodevole ed apprezzabile il coraggio della Fondazione Petruzzelli, per aver voluto puntare sull’inusualità di un titolo in cartellone, che si rivela un successo così come lo fu all’esordio e per lungo tempo poi. L’auspicio che il capolavoro di Auber possa tornare a far breccia anche in altri Teatri, magari con questa versione barese salutata da consensi ed applausi convinti, guarda innanzitutto al San Carlo a Napoli. Masaniello lo merita, c’è un debito da saldare verso di lui!
di Antonio V. Gelormini
(12.03.2013)
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