Telefono gioco di umana verità
Tutto si consuma a fuoco lento nel tumulto
di un energia implosiva devastante che sfiora appena la ragione
Bolzano – Se il calore di due corpi distanti fra loro penetra nel colore della loro stessa voce, attraverso chilometrici cavi d’alta tensione umana, vi è una sola realtà possibile: l’illusione di viverla nella diabolica verità del telefono, protagonista indiscusso de “tragedia lirica in un atto di Francis Poulenc e “The Telephone” or l’amour a trois opera in un atto di Gian Carlo Menotti, andati in scena al Teatro Comunale di Bolzano lunedì 22 marzo e in replica martedì 23, orchestra de l’Accademica Claudio Monteverdi Bolzano, direttore Emir Saul, regia Sandro Pasqualetto, interpreti Cristina Zavalloni per Poulenc, Blerta Zhegu e Mattia Nicolini per Menotti.
La Voix Humaine di Poulenc su libretto di Jean Cocteau e la parola si apre al dramma, si fonde sul dolore, diviene dolore, esistenza piegata, trafitta dall’angoscia e dalla solitudine. Una donna, una stanza come tante, una storia come tante ed un telefono, in questo caso, non solo mezzo di comunicazione, ma elemento che veicola la complessità dei sentimenti denudati della loro libido e ricoperti di normale vacuità quotidiana.
Tutto si consuma a fuoco lento nel tumulto di un energia implosiva devastante che sfiora appena la ragione per torturare invece l’anima, voce umana legata a quell’amore impossibile, a quella vitale essenza che ormai giunge solo attraverso il telefono. Ogni interruzione, ogni arresto di quel flusso di tenere e taglienti parole provoca una momentanea morte apparente, un oblio del sogno. Non vi è più vita, non vi è più speranza fino a quando un nuovo trillo telefonico irrompe nel silenzio tagliente e lancinante, riaccendendo la scintilla della misera condizione umana che torna a respirare; ecco allora che dubbi, menzogne e presunte verità oscillano, dondolano in un continuo equilibrio tra le pause telefoniche. La musica di Poulenc è emozione sfumata in dedali di sentimenti che avvolgono la protagonista nel mare della solitudine. Non musica descrittiva ma musica introspettiva capace di sottolineare le sensazioni interiori avvolgendole in sfuggenti atmosfere, per librare successivamente, in ogni movimento, la tensione nervosa, il riflesso impietoso e impetuoso di una lenta e continua dissoluzione della realtà del personaggio.
Il gesto attento del direttore e la precisione orchestrale hanno dato ampio spazio alla voce fremente, alla sensibilità maciullata, al telefono che conduce il gioco procurando spasmi e contrazioni. L’interpretazione di Cristina Zavalloni è struggimento suadente sull’ultimo lascivo anfratto della coscienza. Fraseggi, intervalli, azione scenica danzano ininterrottamente dentro l’informe procurato da quella voce dall’altra parte del telefono, mentre il suono orchestrale infiamma e consuma la vocalità della Zavalloni. L’esistenza le scivola addosso e poi cavalca freneticamente le onde sussultorie di un trillo telefonico, Pronto! Hallo! quiete, tempesta, dolore, rabbia, amore e ancora amore rassegnato, dolce illusione, tenere bugia in quel fatale, Je t’eme.
La musica si accende d’ironia, con l’opera dalla durata ridotta di Menotti su libretto dello stesso Menotti. Leggerezza, divertimento e una spumeggiante interpretazione di Zhegu e Nicolini. Il telefono prima di tutto, il telefono sempre e comunque s’impossessa del tempo, di noi, delle nostre vite che vibrano, piangono, seducono, raccontano solo attraverso i suoi fili. Un divertissement dove la musica interpreta ogni movimento, ogni respiro, ogni illusione, ogni espressione di entrambi gli interlocutori. Parole tradotte in frasi musicali e viceversa, respiri, pause, piccole arie venate di ironia tingono a colpi di battute sagaci l’importanza di presenza ossessiva ma fondamentale che comunica con noi, fra di noi, tessendo le fila di un amour a trois.
Divertente, sarcastica, graffiante partitura, pagini musicali che sostituiscono la voce e ne dipingono le inclinazioni, l’ intimità, le alterazioni. Effetti e affetti che corrono lungo i fili del telefono e avvolgono di musicalità esilarante l’incomunicabilità umana.
Poco da dire sulla scenografia semplici e ordinarie stanze d’albergo, luoghi lasciati aperti agli sguardi di comparse e spettatori che forse avrebbero preferito sostare sulla soglia dell’intensità struggente e profonda di Poulenc come della piacevolezza di Menotti, dopotutto non c’è dolore o gioia che il telefono non trasporti nei suoi infiniti fili di umanità e parole.
di Antonella Iozzo © Produzione riservata
( 3/03/2010)
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