VIVA V.E.R.D.I

 

 

 Viva  V.E.R.D.I.


Come Và pensiero e altri cori d’opera divennero nell’800
canti di battaglia per chi combatteva per l’Italia unita e indipendente.

I testi dei libretti d’opera
dovevano avere il visto della censura austroungarico o borbonica.

Anche all’estero l’opera aveva echi patriottici:
la saga dei Nibelunghi, per Wagner, era un inno all’identità
.

 

  

di Adriano Monti Buzzetti Colella

Giuseppe_Verdi_1E’ il 25 di luglio e fa caldo, anzi caldissimo: la torrida estate meridionale dell’anno 1844 cuoce le campagne intorno a Cosenza. Ma Attilio ed Emilio Bandiera sudano freddo. Con  altri sette patrioti stanno fronteggiando un plotone di esecuzione borbonico. Pochi istanti prima della raffica di fucileria che li consegnerà alla morte, dalla fila dei condannati parte un canto:  “Chi per la patria muor / vissuto è assai”. Molto patriottico. Ma non è un canto di battaglia, è un’aria d’opera, tratta dalla “Caritea regina di Spagna”, picaresco intreccio di amori, duelli e corone composto nel 1826 da Saverio Mercadante. Niente di politico, insomma.

Eppure quasi versi, con quell’accenno alla patria, sono soprattutto una provocazione antiborbonica, nonché il primo attestato di un matrimonio che è insieme d’amore e d’interesse: quello tra melodramma e Risorgimento. Un matrimonio la cui musica nuziale porterà la firma del “menestrello” dell’Unità d’Italia: Giuseppe Verdi.

Di quel legame era ben consapevole persino Mazzini, che esule in Francia scrisse un saggio sul tema. << In quello scritto>> spiega Piero Mioli, storico della musica al Conservatorio di Bologna << Mazzini diceva che mentre  sul piano artistico il melodramma aveva a suo giudizio già raggiunto l’apice con Rossini, su quello dei contenuti poteva evolversi verso l’impegno civile e sociale. Parole che suonano come una profezia dell’avvento di Verdi>>.  Detto fatto: l’arrivo dei turbolenti Anni ’40 dell’Ottocento coincise infatti con il debutto alla Scala di Milano della prima opera verdiana ” patriottica”, il Nabucco ( 1842).  Il celebre coro Và pensiero è in realtà, nell’opera, un canto degli ebrei  schiavi a Babilonia ( episodio biblico). Ma sentendone le parole gli italiani oppressi dallo straniero si immedesimarono subito. E i censori asburgici non si insospettirono: ” Degli ebrei che si lamentano? Nulla di strano” dovettero pensare.

Anche le successive opere di Verdi avevano poco a che fare con l’attualità. Eppure, pur essendo di ambientazione storica, spesso la trama parlava di cospirazione e rivolte contro tiranni e oppressori. Tanto bastava, Nei “Lombardi alla prima crociata” ( 1843) il coro “O Signore, dal tetto natio” cantato dai seguaci padani del piissimo crociato Goffredo di Buglione divenne un inno nostalgico a una patria perduta. Anche “Ernani” (1844) , una vicenda di briganti e ribelli nella Spagna rinascimentale, fu calato a forza nel presente dal pubblico. << Alla biblioteca di Bologna>> rivela Mioli << si conserva un libretto dell’epoca in cui un’originaria ode del coro a Carlo V di Spagna fu trasformata, per una delle rappresentazioni, nel più politico ” a Pio IX sia gloria e onor” per omaggiare papa Mastai Ferretti, il pontefice che aveva suscitato speranze tra i liberali.

Per Ernani, ” I due Foscari” (1844), ” Giovanna d’Arco” ( 1845) , “Attila” ( 1845) e  soprattutto per “La Battaglia di Legnano” ( del 1849, successiva quindi alle sollevazioni del 48, Verdi e i suoi librettisti ( Francesco Maria Piave, Temistocle Solera e Nicola Cammarano)  si destreggiarono tra censure e obiezioni più o meno ufficiali. Nel 1851, invece, dal “Rigoletto” dovettero eliminare il riferimento al re di Francia Francesco I . << Non per motivi politici pero>> puntualizza Mioli. << L’opera, tratta da ” Il re si diverte” di Victor Hugo, prevedeva che il sovrano cantasse le arie più “libertine” , come “La donna è mobile o questa o quella per me pari sono”. Si reputò sconveniente che un sovrano si esprimesse così e il protagonista fu “degradato” a duca di Mantova.

Una situazione analoga si ripeté con ” I Vespri siciliani” , del 1855. Questa volta il riferimento all’attualità era abbastanza esplicito: la vicenda è infatti la rievocazione della rivolta siciliana del Duecento contro i francesi. Così in Italia l’opera dovette cambiare titolo ( divenne Francesca di Guzman) e l’azione fu spostata in Portogallo. Ancora più fatale fu l’incrocio fra libretto e attualità nel caso di “Un ballo in maschera”. L’opera avrebbe dovuto debuttare a Napoli nel febbraio del 1858. << A poche settimane dalla prima, il tentativo di Felice Orsini di assassinare Napoleone III ( colpevole di avere affossato la Repubblica romana dieci anni prima) era finito in strage>>  racconta Mioli, << La trama, che trattava di un potente ucciso in una congiura, sembrava un insidioso richiamo alla cronaca>>. Furono imposti cambiamenti così radicali che Verdi stracciò il contratto. L’opera tornò in cartellone l’anno dopo,a  Roma. << La censura papalina fece trapiantare al vicenda nell’America coloniale, a Boston, all’epoca un contesto remoto. E protagonista non fu più una testa coronata, ma il governo della città>>. 
Il  “depistaggio” servì a poco. Proprio durante le prove di ” Un ballo in maschera” la folla filo-unitaria ( Roma era ancora Stato della Chiesa) tenne a battesimo il celebre slogan ” Viva V.E.R.D.I” , scritto sui muri dell’albergo che ospitava il musicista; le lettere del cognome formavano le iniziali di ” Vittorio Emanuele re d’Italia”. Il Risorgimento, ormai maggiorenne, aveva trovato il suo cantore.

Ma lui, il ruvido emiliano di Busseto (PR), quanto fu consenziente? Mioli non ha dubbi: << Credo che quel ruolo lo compiacesse >>. Del resto, di li a poco sarebbe diventato deputato e poi senatore nel nuovo parlamento nazionale. << Verdi  era prima di tutto occupato dalle questioni teatrali>> continua Mioli. << Ma non era tipo da farsi imporre tram e  libretti preconfezionati, come facevano altri. Sceglieva, e poi “torturava” il librettista finché non aveva espresso quello che voleva lui>>. Il risultato fu la ” colonna sonora” del Risorgimento.

Va detto che il fidanzamento melodramma – patriottismo era di lunga data. Lo dimostra proprio quel “canto del cigno” dei fratelli Bandiera. L’autore, Saverio Mercadante, era decisamente più tipo da soggetti religiosi o sentimentali che politici. Eppure  era bastato quell’accenno a una patria nel libretto ( benché non fosse l’Italia) a farne un inno rivoluzionario. Nei primi decenni dell’800 interi passi celebri della lirica iniziarono a essere riletti in chiave di riscatto nazionale. E questo andando b en oltre le reali intenzioni di musicisti, librettisti al bando si tenevano alla larga d argomenti ” sovversivi”.

<< Il fenomeno esplose con Verdi, ma se ne trovano avvisaglie precedenti>> conferma Mioli. << Prendiamo Rossini: la sua ultima opera è del 1829 e la sua mentalità era settecentesca. Il suo curriculum, poi,era “compromesso” ( compose cantate per il “Belzebù austriaco” Metternich e ricevette la Legion d’Onore dall’ultrareazionario Carlo X di Francia). Eppure nelle sue opere c’era  già qualcosa che infiammava i patrioti>>.  “L’Italiana in Algeri” , per esempio, è del 1813 ed è la storia piccante di un’intraprendente connazionale rapita da un bey moresco. << Il passo ” Pensa alla patria, e intrepido/il tuo dover adempi:/ vedi per tutta Italia / rinascere gli esempi/ di ardire e di volar” susciterà reazioni entusiastiche>> . Soprattutto degli italiani rimasti scottati dalla Restaurazione. La censura austriaca lasciò correre. Non così quella pontificia, che preferì evitare ogni richiamo all’italianità anche nel titolo: per essere rappresentata a Roma, l’opera divenne ” Il naufragio felice”.

Rossini ammiccò ( probabilmente involontariamente, al contrario di Verdi) alla causa nazionale in  opere come “Mosè in Egitto” ( ebrei e ottomani) e soprattutto in “Guglielmo Tell”, storia svizzera di ribellioni ai soprusi. Ancora più esplicita fu nel 1831 la “Norma” di Vincenzo Bellini. Antichi guerrieri  galli in lotta contro la dominazione romana vi intonano il coro “Guerra, guerra! Le galliche selve/ quante han querce producon guerrier” . Ma come poté l’elegiaco e melodioso Bellini trovare il coraggio di inneggiare ( qui e in altre opere) alla libertà in uno dei periodi di più stretta censura austriaca, pontificia e borbonica?
<< In effetti non potè>> dice Mioli. << Rappresentò le sue opere a Parigi , nella Francia non troppo reazionaria di Luigi Filippo d’Orlèans, e con i testi di un poeta esule, Carlo Pepoli. In Italia, in quel periodo, nei libretti d’opera la parola ” libertà” veniva sempre censurata>> .

di Adriano Monti Buzzetti Colella
Fonte: Focus dicembre 2010

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